Ero un giovane cronista di TV Oggi Salerno, emittente per la quale collaboravo da poche settimane. Il TG aveva da poco mandato in onda, se la memoria non mi tradisce, un mio servizio sulla presentazione di un libro su Giovanni Palatucci e – lo confesso – le mie conoscenze sul periodo nazi-fascista il provincia di Salerno si limitavano alle poche nozioni apprese dai testi scolastici e da qualche libro di storia locale (come quello del compianto Luigi Carrella, nonno della mia amica del cuore).
Chiuso il TG (come sempre non letto da me: restio alle telecamere) mi accingevo ad andarmene quando mi arriva una telefonata. Dall’altro capo del telefono, Remo Tagliaferri che ha appena ascoltato il mio servizio e chiede proprio di me. Inizia, già al telefono, a raccontarmi la sua storia, che mi colpisce immediatamente.
Con l’amica direttrice dell’emittente Ersilia Gillio, decidiamo di farne uno speciale, una sorta di servizio del TG più lungo del solito. Non sapevo, che avrebbe segnato tutta la mia esistenza ed ancora oggi mi duole non averne conservato una copia (l’avevo in verità in VHS, ma finì smagnetizzata dopo qualche anno).
Mi raccontò la sua storia, Tagliaferri, a me giovane cronista. Una storia che andrebbe oggi ripresa e riproposta, perché segna nel profondo ed insegna più di tante lezioni e capitoli di storia. Perché è fondata sull’esempio e sui comportamenti, non sulle parole e sulle enunciazioni teoriche.
Tagliaferri era uno dei “guardiani” – una sorta di guardia carceraria, non saprei definirla altrimenti, ma sicuramente lui nell’intervista me ne diede la corretta definizione che non ricordo – del campo di concentramento di Campagna. Sapevo a stento che a Campagna ci fu un campo di concentramento.
Vigilava sugli ebrei prigionieri del campo, ma era una vigilanza molto blanda, tanta era la reciproca fiducia ed affezione: in tanti dei prigionieri ebrei uscivano tranquillamente al mattino per far rientro a sera. Uno di loro, medico, era molto amato e stimato dalla popolazione, in enormi difficoltà – in quei giorni – per la mancanza del medico condotto. Quell’ebreo, fornì alla gente del posto ogni supporto e ogni consiglio, prestando la sua attività di medico in maniera gratuita e disinteressata. E la popolazione, quando poteva, si sdebitava con quel poco che riusciva a racimolare a causa della guerra: farina, uova, pane, pasta.
Le “animosità” e i contrasti tra internati e guardiani, si limitavano alle partite di calcio che di tanto in tanto si svolgevano sull’attiguo campetto. Era nata e si era consolidata un’amicizia tale, che davvero la distinzione era possibile solo grazie alla divisa dei militari.
Un giorno arriva al campo la notizia che tutti temevano: il giorno successivo i nazisti avrebbero prelevato i prigionieri per trasferirli ad Auschwitz. Già si conosceva – all’epoca – la sorte che toccava agli internati.
Remo Tagliaferri mi raccontò di una cena muta e di una interminabile notte di sguardi spenti e sofferenti.
Poi la decisione, non ricordo se di Tagliaferri o di un suo superiore. Ultimata la cena qualcuno diede ad intendere che, quella notte, i cancelli sarebbero rimasti aperti. Cosa che avvenne. A fuggire, ovviamente, non solo gli internati ma gli stessi sorveglianti, giacché era fin troppo prevedibile ed immaginabile la reazione dei fascisti al loro arrivo.
Per nove giorni ebrei e militari vagarono per i monti di Campagna, accolti e nascosti dalla popolazione. I nazisti trovarono il campo vuoto, deserto, e dovettero sfogare chissà come la loro rabbia.
Oggi, grazie ad un bell’articolo de L’Ora diretto da Andrea Pellegrino (da cui prendo la foto), ho rivissuto questa storia e ricordato Remo Tagliaferri. Vero Giusto tra le nazioni, nei fatti e nei comportamenti prima ancora che nelle parole. Ve ne fossero di uomini giusti come lui, oggi in Israele e in Palestina, la competizione sarebbe solo sui campi di calcio. Ed un accordo si troverebbe, mettendo a tacere le armi.
